Nella pratica clinica, da decenni, è stato possibile riscontrare che molto spesso, le difficoltà riportate in terapia dai pazienti adulti sono riconducibili ad eventi traumatici infantili che riguardano forme di attaccamento disfunzionali, il mancato accudimento, gravi forme di incuria e l’abuso.
L’abuso sessuale subito durante l’infanzia è una delle ferite più profonde riportate o svelate in terapia, poiché, nel tempo, i suoi esiti portano a gravi mancanze nel senso di sicurezza, di identità e nel sentirsi capaci di fare delle scelte e di fronteggiare gli eventi.
Montecchi (2005) ha definito l’abuso sessuale come una condizione in cui il minore, essendo un soggetto ancora immaturo, dipendente dagli adulti e mancante di quella consapevolezza delle proprie azioni che consente di poter fare delle scelte, subisce ciò che gli viene fatto o gli viene chiesto di fare e ne è vittima. La caratteristica centrale di ogni abuso, dunque, è la posizione dominante dell’adulto abusante che induce il minore ad un’attività sessuale in modo coercitivo, tramite minacce o manipolazione psicologica.
Si parla di abuso sessuale anche nei casi in cui il minore viene “solamente” esposto alla visione o all’ascolto di video, scene o racconti a contenuto sessuale non appropriati all’età o alla relazione con l’abusante.
Tali esperienze traumatiche precoci, come mostra una vasta letteratura sul tema (Malacrea, 1998 ; Herman, 2005 ; Van der Kolk, 2015 ; Battle et al, 2004), producono cambiamenti profondi e duraturi nello stato di attivazione neuropsicologica, nelle emozioni, nello stato cognitivo, nell’organizzazione dei ricordi nella memoria ed anche nel funzionamento stesso delle strutture cerebrali e dell’apparato neuroendocrino. Risultano compromesse le aree dell’autostima, il senso di sicurezza, la sessualità, la qualità delle relazioni, con una particolare difficoltà nell’avere fiducia negli altri.
Le persone che hanno subìto degli abusi possono sviluppare un Disturbo Post Traumatico da stress Complesso e presentare un vasto corteo sintomatico in cui sono presenti stati ansiosi, depressivi, difficoltà nella regolazione delle emozioni, comportamenti autolesivi, dipendenze, disturbi psicosomatici, disturbi alimentari, stati dissociativi, flashback delle esperienze traumatiche, pensieri intrusivi, depersonalizzazione, ecc.
L’EMDR (Desensibilizzazione e Rielaborazione tramite i Movimenti Oculari) è un approccio psicoterapeutico che si è rivelato efficace per il trattamento dei traumi sessuali. È una metodologia complessa che, tramite la stimolazione bilaterale degli emisferi cerebrali attiva il sistema innato di autoguarigione della mente, che permette di accedere ai ricordi delle esperienze traumatiche che stanno alla base dei disturbi attuali del paziente, consentendo una rielaborazione e risoluzione adattiva del trauma.
Tramite il metodo EMDR, che si integra con gli approcci psicoterapeutici più tradizionali, i ricordi disturbanti del passato vengono riprocessati nelle varie componenti: i pensieri intrusivi perdono forza o spariscono, le cognizioni del paziente diventano più adattive e le emozioni e sensazioni fisiche si riducono di intensità e assumono un significato, perdendo la loro caratteristica coercitiva. La persona sente che il ricordo del trauma fa parte del passato e non è più un fantasma nel presente.
Photo by Kelly Sikkema on Unsplash
Per chi volesse approfondire questo tema e gli autori citati.
Montecchi F. (2005) , Dal bambino minaccioso al bambino minacciato. Gli abusi sui bambini e la violenza in famiglia: prevenzione, rilevamento e trattamento, Franco Angeli, Milano.
Malacrea M. (1998), Trauma e riparazione, Cortina, Milano.
Herman J. L. (2005), Guarire dal trauma. Affrontare le conseguenze della violenza dall’abuso domestico al terrorismo, Magi Edizioni, Roma.
Van der Kolk B. (2015), Il corpo accusa il colpo. Mente, corpo e cervello nell’elaborazione delle memorie traumatiche, Cortina, Milano.
Battle C.L. et al. (2004), “Maltrattamento infantile associato a disturbi della personalità adulta: risultati dello studio collaborativo sui disturbi della personalità longitudinale”. Journal of Personality Disorders, 18, pp. 193–211.