L’Attacco di Panico, ad oggi, è cresciuto del 197%. E’ molto frequente e arriva a colpire fino all’11% della popolazione in un solo anno.
La maggior parte dei soggetti guarisce senza terapia mentre una minoranza sviluppa un disturbo di panico.
Il Disturbo di Panico (DAP) interessa il 2-3% della popolazione in un periodo di 12 mesi. Di solito esordisce nella tarda adolescenza o nella prima età adulta e ha un’incidenza 2 volte maggiore nelle donne rispetto agli uomini.
Quali sono le differenze? Mentre l’Attacco di Panico non è una categoria diagnostica e può manifestarsi anche in seguito a situazioni stressanti, il DAP è una situazione clinica complessa perchè è caratterizzato da un’insorgenza di attacchi di panico apparentemente senza spiegazione.
Il DAP è cambiato negli anni. Negli anni ’90 si manifestava intorno ai 18 anni. Adesso l’insorgenza è molto più precoce fino ad arrivare alla preadolescenza ed è più difficile da diagnosticare.
Le recenti ricerche (Francesetti et al.) hanno esplorato l’esperienza dei pazienti che soffrono del disturbo di panico unendolo alle neuroscienze di Pankseep.
Il cuore di questa nuova prospettiva ci dice che se vogliamo comprendere i pazienti che soffrono di DAP è importante non considerare questa patologia come qualcosa che si genera da una paura esagerata. Nello stesso tempo dobbiamo aprire l’esplorazione clinica a una dimensione negletta che è la dimensione della solitudine. Secondo questo nuovo nucleo portante, la paura è secondaria: si tratta, piuttosto, di un disturbo caratterizzato da una solitudine che in quanto negata, dissociata, non è neanche elaborabile.
Per entrare significativamente nel cuore di questa nuova prospettiva bisogna approfondire l’etimologia della parola. “Panico” viene dal greco “pan” che significa “tutte le cose”. Il richiamo è alla naturalità dell’essere umano nella sua accezione più biologica. È la vita (biòs) che entra a gamba tesa nella mente (psyche). Il dio Pan era l’unico dio mortale dell’Olimpo greco. Figlio di una ninfa bellissima e del dio Hermes, nasce metà uomo e metà caprone. La madre scappa e lascia Pan da solo nella foresta. In questa narrazione è racchiuso il tema centrale del disturbo di panico. È una esperienza precoce di essere lasciati soli al mondo senza mediazione affettiva. Pan nasce ferito in questo punto, ferito in questa esposizione al mondo che lascia senza fiato.
La radice esperienziale del DAP è la solitudine di esporsi senza filtri, l’essere esposto al mondo.
Non è un caso che il DAP si accompagni spesso all’agorafobia, la paura di essere in mezzo alla piazza.
L’esordio è nell’adolescenza in quanto proprio l’adolescenza è un passaggio di vulnerabilità.
Il nostro sistema sociale è poverissimo di riti che accompagnano questi passaggi. L’anticipazione dei disturbi di panico è anche dovuto al fatto che l’utilizzo di smartphone o device digitali in genere inizia tra i 10 anni e gli 11 anni. Cosa sono i social media se non una finestra tra il privato e il mondo che non ha alcun filtro di mediazione familiare?
Molti ragazzi tornano ad esempio a voler dormire nel letto con i genitori o vogliono essere accompagnati. Sono elementi che indicano che il DAP ha a che fare con la solitudine.
Altro elemento a favore di questa tesi sono le esperienze che si hanno nel DAP, ovvero l’esperienza di temere di impazzire e di morire. Anche qui l’esperienza è quella della separazione radicale ed acuta. Ulteriore elemento è che la sintomatologia non è tipica della paura ma vi è una mancanza acuta di respiro e qui entriamo nel campo delle neuroscienze affettive (Panksepp, 2010).
Panksepp riconosce 7 sistemi motivazionali. Uno è proprio quello della paura attivato da una minaccia esterna che produce una risposta di fight or flight. Ma c’è un altro sistema: il sistema del panico attivato dalla separazione dalle proprie appartenenze affettive.
Il panico nasce dalla separazione, dalla rottura, da un passaggio da appartenenze radicate ad una sovraesposizione al mondo che è insopportabile.
I pazienti però hanno difficoltà a dire di sentirsi soli, perché la solitudine non è legittimata, è negata; tuttavia parlano della loro solitudine attraverso gli atti. Questo comporta spesso una svalutazione degli eventi di vita pur di non vedere la solitudine.
Nel lavoro clinico occorre, pertanto, andare oltre l’esplorazione della paura. Il disturbo di panico non è altro che un disturbo della crescita: c’è una disarmonia fra un esporsi troppo e non essere abbastanza sostenuto da appartenenze che reggono. La società è narcisistica, frammentata, borderline. Il legame è fragile.
Di questo dobbiamo sempre tener conto, in quanto il disturbo di panico nasce sempre su uno sfondo. Uno è quello dei passaggi di vita l’altro è quello della perdita (lutto, anche simbolico, di una persona importante come accompagnamento nel mondo di cui la persona non riesce a sentire il bisogno e la mancanza).
Quando questi pazienti arrivano in terapia la loro domanda è di tornare ad essere autonomi come prima. Occorre lavorare sul costruire e nutrire l’appartenenza più che spingere all’autonomia. È proprio questa una delle cause di interruzione di terapia. Queste persone hanno bisogno di terreno su cui appoggiarsi e la prima cosa da fare è costruire l’appartenenza terapeutica che diventa una relazione di apprendimento.
Nonostante gli indizi della ricerca perché allora il Disturbo di Panico è stato considerato come reazione alla paura?
La dimenticanza della solitudine può essere dovuta ad un contesto sociale che svaluta l’Altro e non lo considera come ancoraggio: abitiamo una società che premia l’individualità a discapito della relazione. Ciò viene demolito dai nostri pazienti con DAP.
Alla luce della tesi sostenuta, l’EMDR, che costituisce un approccio ben integrabile in diversi modelli teorici di intervento, può essere utile nel trattamento del DAP per:
• elaborare il ricordo degli attacchi di panico (il primo, il peggiore,
l’ultimo);
• elaborare le situazioni scatenanti legate al panico nel presente;
• sostenere e rafforzare una prospettiva futura adattiva per affrontare
situazioni legate ai sintomi.
Presupposto teorico dell’EMDR è che qualunque reazione disfunzionale attuale sia sempre il risultato di un’esperienza precedente e non necessariamente infantile ed il lavoro si concentra sul ricordo traumatico, su come l’individuo interpreta le informazioni ad esso connesse e su tutte le sue componenti soggettive con particolare attenzione all’emotività ed alla conseguente reattività a stimoli semanticamente simili al ricordo originario (Simonetta, 2010).
L’EMDR è un protocollo che, mediante l’azione su schemi disfunzionali, interviene sulle memorie autobiografiche più direttamente collegate alla patologia attuale. La struttura stessa dell’intervento e l’attenzione posta a tutti i canali di informazione favoriscono questa elaborazione. I pazienti diventano maggiormente consapevoli di ciò che accade, limitando la tendenza al rimuginio. Inoltre, l’attenzione posta sul sé e su ciò che il paziente esperisce in seduta e non sulla terapia, rende meno gravosa l’elaborazione del trauma, favorendo la cooperazione e l’alleanza terapeutica.
Per chi volesse approfondire questo tema e gli autori citati.
Faretta E., (2018). EMDR e disturbo di panico. Dalle teorie integrate al modello di intervento nella pratica. Edra Editore
Francesetti, G., (2020). Webinar “Disturbo di Panico: attacco di paura o attacco acuto di solitudine? Un confronto fra il modello fenomenologico e le neuroscienze affettive di Pankseep”.
Liotti, G., Fassone, G., Monticelli, F., (2017). L’evoluzione delle emozioni e dei sistemi motivazionali. Teoria, ricerca, clinica. Milano, Raffaello Cortina Editore.
Simonetta, E., (2010). Esperienze traumatiche di vita in età evolutiva. EMDR come terapia. Franco Angeli.
Panksepp, J., (2010). Affective neuroscince of the embolie BrainMind: evolutionary perspectives and implications for under standing depression. Dialogues in Clinical Neuroscience, 12 (4): 533-545.